Potere all'immaginazione |
||
Il '68, mito e
realtà dei nostri giorni. Precisamente, trent'anni fa un'onda lunga di protesta, si propagò in tutte le università del mondo; miti e tradizioni che avevano tenuto saldo, fino ad allora, il connettivo della società vennero messe in discussione. Il vecchio, con tutti i suoi millenari valori, veniva scardinato dalle fondamenta e si proponevano alternative al sistema, che in molti casi erano e sono inaccettabili e impraticabili. "Dio morto", "Fate l'amore e non la guerra" e mille altri slogan si sentivano continuamente ad ogni angolo di strada. Una latente conflittualità generazionale, che serpeggiava già da tempo in modo strisciante, si amplia fino ad assumere le dimensioni di un grave conflitto tra due diverse culture e esplode in tutta la sua violenza, sfociando in seguito nel periodo buio del terrorismo e, furono quelli anni di terrore per molti. Ma per un'analisi onesta e corretta di quelli che furono, nel bene e nel male, quegli anni bisogna andare indietro nel tempo e ricostruire i vari movimenti che poi diedero vita alla rivoluzione sessantottina. La "beat generation", i Gammler, gli Happeners, i Provos, gli hippies, più comunemente conosciuti come "i figli dei fiori" e gli yippies, sono questi i primi movimenti, che in modo diverso, si fanno portatori della parola "Libertà", intesa nel senso più assoluto, essi partono dal concetto che i contrassegni della società devono essere messi a nudo prima in noi stessi (esorcizzando, quindi, costrizioni, repressioni, frustrazioni, violenza introiettata etc.) e, la liberalizzazione di sè diventa poi la condizione per la liberalizzazione della società. Il bersaglio allora da colpire e abbattere è, per loro, la società borghese che con tutte le strutture autoritarie ha imbrigliato con la sua azione educativa intere generazioni e, allora ogni metodo diventa buono per portare avanti una battaglia che distrugga questa società coercitiva per costruirne un'altra, secondo loro, più giusta e umana. Così, tra sesso proclamato ad alta voce, marijuana, LSD, e confusione fantasmagorica, inizia la lunga protesta delle organizzazioni studentesche. Era solo un gran baccano, a volte senza nessun fondo razionale; di fronte alle barricate non si vedevano altro che pugni alzati e pietre che volavano e i veloci articoli d'epoca, che parlavano di questo fenomeno, lo liquidavano con semplici frasi del tipo "ondata di violenza senza ragione" "impeto di rabbia". Il primo movimento di protesta, è la "beat generation" e il suo mondo nuovo fu cercato lontano da quello borghese e piccolo-borghese, essi non speravano in niente; la Corea minacciava una terza guerra mondiale, McCarthy cercava di fare pulizia di tutte le forze antiamericane, per essi la speranza non aveva più patria, era morta sotto la grandine di bombe e nelle prigioni di Stalin. I centri di raccolta del movimento erano S. Francisco, Venice, Los Angeles, il Greenwich Village, ma le loro sedi cambiavano di continuo e poichè la realtà concreta rendeva inattuabile il raggiungimento della liberazione dell'individuo, ecco comparire la marijuana e le lunghe notti di fantastici e assurdi racconti. I beats non volevano sapere più niente della società, a malapena compravano i giornali e anche la religione veniva messa sotto accusa come corresponsabile di errori e ipocrisie. |
Per loro il mondo si
rivela una fantastica delusione. Da S Francisco e da New York sbarcano in Europa i Gammler, così chiamati in tutta l'area tedesca, siamo intorno al 1964. Stoccolma, Berlino, Francoforte, Roma, Vienna, Zurigo, Oslo, ne vengono invase. Inizialmente essi vengono ignorati come fenomeno, ma man mano la realtà sociale è costretta a prenderne atto e, insieme al loro riconoscimento ufficiale iniziano le prime reazioni politiche e di stampa. Il sistema è in allarme e famosa è la frase del Cancelliere tedesco Erhard: "Finchè governerò io, farò di tutto per distruggere questa cosa priva di senso". La sua ribellione era passiva, il Gammler non voleva rovesciare il potere, voleva solo liberarsi dal suo influsso, vivere un'esistenza libera, rifiutando qualsiasi lavoro e soprattutto ignorando l'importanza e il valore del denaro. Molti tra i Gammler erano degli sbandati e chiara era la loro predisposizione verso le droghe che servono, a loro avviso, a dilatare le coscienze. Contemporaneamente ai Gammler, intorno al ' 64, ecco comparire i Provos che portano la contestazione per le strade. Il centro di Amsterdam diviene il teatro diretto di svariate manifestazioni e il 12 luglio del 1965 compare la rivista "Provo". Essi attaccavano tutto e tutti, la Monarchia, la polizia, la burocrazia, lo stato, la guerra nel Vietnam, la Nato. Anch'essi non lottavano per il potere, ma lo rifiutavano e-spressamente ed è da citare una frase di un loro leader: "Noi non abbiamo alcun potere, nè lo vogliamo, perchè il potere corrompe.... via la polizia, via l'esercito, via l'apparato statale, gli operai gestiranno le fabbriche...". Sempre a metà degli anni sessanta, compaiono a New York e a S. Francisco gli hippies. Studenti, commercianti, insegnanti, tecnici, vi aderiscono e in breve tempo, secondo alcuni sociologi, ve ne erano più di mezzo milione. Gli hippies definivano il loro movimento come una protesta vitale contro lo stato attuale della società americana, e, la loro opposizione più che razionale aveva in primo luogo uno sfondo emozionale. La droga, secondo loro, li detergeva dagli influssi inibitori del mondo esterno. Il quietismo degli hippies è all'improvviso soppiantato dalla volontà rivoluzionaria degli yippies. L'YIP, diventa un partito politico, anche se non nel senso tradizionale, il loro portavoce Jerry Rubin dichiarava: "Soltanto la rivoluzione popolare di massa può liberare l'anima imprigionata del popolo americano. La rivoluzione non è un punto di arrivo, è un processo continuo". Dalla sintesi di questi variegati movimenti, nasce infine la rivolta internazionale studentesca, che ha come luogo e data di nascita, Parigi maggio 1968. Sono passati trent'anni, quella classe che voleva cambiare il sistema, oggi è completamente integrata, definirla rivoluzionaria diventa un gioco verbale sostanzialmente ipocrita. Di questi mitici rivoluzionari, resta tangibile, solo il loro erede naturale, il terrorismo che, sia pure con inutili spargimenti di sangue, non ha certamente cambiato il sistema. |
Una Rivolta di Generazione |
||
Trent'anni. Una vita. Tornare a parlare di quel tempo non deve valere come una commemorazione, come un' adunata di reduci. Lo scopo della rievocazione di quei fatti deve essere soltanto didattico, a beneficio delle nuove generazioni: affinchè esse sappiano, comprendano, facciano i necessari raffronti con gli avvenimenti del tempo presente e possano maturare una lucida coscienza politica. E per chi ha appartenuto alla generazione del '68 sarebbe una nemesi, una vittoria postuma col sapore della vendetta, se i giovani di oggi sapessero utilizzare la lezione che viene dalla conoscenza dei fatti di quell'epoca. Perciò occorre ricordare come era l'Italia di quel tempo ed analizzare con razionalità il suo quadro sociale, per capire le origini di una diffusa ribellione generazionale, che allora fu definita "contestazione" giovanile. E soprattutto occorre riflettere con freddezza e lucidità sugli errori e sulle debolezze, che impedirono la svolta radicale, per cui molti (ed i migliori) lottarono. L'Italia degli anni '60 Già nella seconda metà degli anni '60, il disagio dei giovani era grande dinanzi ad un conformismo imperante, ad una stagnazione della dinamica sociale, all'immobilismo politico ed alla rozzezza culturale del regime democristiano. Era l'Italietta ipocrita che processava i ragazzi del Liceo Parini di Milano per avere pubblicato sul loro giornale scolastico "La Zanzara" una inchiesta sui costumi sessuali dei giovani. Era ancora l'Italietta cattolicarda che aveva imposto abiti castigati alle ballerine della TV. La corruzione, e più in generale, l'immoralità della vita pubblica erano avvertiti, anche se non erano del tutto emersi agli occhi dell'opinione pubblica, sebbene il settimanale "Il Borghese" ne desse ampio resoconto e Mario Tedeschi avesse pubblicato un "Dizionario del malcostume". Il Telegiornale della RAI era un bollettino di informazione delle prodezze dei politici DC e delle faide fra le correnti democristiane, delle quali i solerti cronisti televisivi si sforzavano di dare ampia descrizione dei referenti e della consistenza numerica di delegati e tessere. Sembrava che la vita politica di una grande Nazione dovesse essere tutta lì in quelle miserie morali. D'altronde come altro avrebbe potuto essere? In un'Europa divisa dal 1945 in due blocchi politico-militari contrapposti, ma per molti versi simili, e subalterna agli imperialismi sovietico-americano, la classe politica al potere in Italia era in sostanza una classe dirigente coloniale. L'opposizione parlamentare era rappresentata dal più forte Partito Comunista non al potere, che, per la sua stessa natura stalinista e per i patti di Yalta, non poteva e non voleva andare al Governo. Comunque i comunisti, consci di ciò, avevano da tempo intrapreso ad occupare alcuni settori fondamentali della società: dall'informazione alle Università, dando luogo ad un' asfissiante egemonia culturale. Potentati industriali e finanziari, rappresentati dalle grandi famiglie del capitalismo italiano, dominavano la scena dell'economia nazionale, accanto all'emergente industria di Stato dell'IRI e delle partecipazioni statali, che dal 1962, con i Governi di centro-sinistra, aveva allungato sempre più i suoi tentacoli. La libertà di iniziativa economica era un'affermazione di principio e null'altro, e si era ben lontani dai favolosi anni 80 caratterizzati dall'imprenditoria diffusa. La stagnazione sociale. Ma ben più grave era la paralisi della dinamica delle classi sociali. Un'oligarchia del danaro, delle professioni e della politica dominava la società italiana e non consentiva alcuna ascesa sociale da parte di giovani provenienti da altri ceti. Un sistema corporativo, nel quale i posti di prestigio nelle istituzioni, nelle professioni, nelle università erano destinati ai pupilli dell'oligarchia: posti da tramandare da padre in figlio. Ne restavano esclusi, senza alcuna possibilità, i giovani, anche i più studiosi, provenienti dalla piccola borghesia e dal ceto operaio. E questi sentivano il blocco della mobilità sociale come una frode, un furto delle loro life chances. Essi soffrivano, in sostanza, di quel fenomeno che i sociologi chiamano "squilibrio di status". Com'è noto, e peraltro dimostrato da Lenski e Benoit-Smullyan, lo status di un individuo può essere misurato secondo scale di valori relative a vari fattori: prestigio sociale, reddito, istruzione, occupazione, ecc. In genere esiste una tendenza all'equilibrio, cioè ad occupare posizioni equivalenti nelle diverse scale di valore. Questo equilibrio si ottiene mediante processi di "conversione di status", consistenti nell'utilizzare la posizione acquisita in una categoria (es. istruzione) per migliorare la posizione in un'altra categoria (es. occupazione, reddito, prestigio sociale). In presenza di un blocco nella dinamica sociale a causa della persistenza di gruppi di privilegio, il processo di "conversione di status" non è realizzabile. Si verifica, quindi, uno "squilibrio di status": cioè ad un livello superiore d'istruzione ed alle relative aspettative crescenti non corrisponde una pari occupazione, nè un pari reddito, nè di conseguenza una promozione sociale. Così accaddeva negli anni '60 per quei giovani intellettuali di estrazione piccolo borghese od operaia, che avevano puntato tutte le loro carte sull'acquisizione di un titolo di studio, grazie ai sacrifici della famiglie, e che finivano per trovarsi in una condizione frustrante. Le scienze sociali ci dimostrano che maggiore è il blocco nella mobilità sociale verticale, più forte è la frustrazione. Superfluo sarebbe ricordare, in proposito, la correlazione fra frustrazione ed aggressività, ampiamente dimostrata dagli psicologi della scuola di Yale (Dollard, Miller, ecc.). Ma il problema ha anche risvolti politici. Il sociologo Gino Germani, docente delle Università di Buenos Aires, Harvard, Napoli, dopo decenni di esperenza latino-americana, ha rilevato (in "Sociologia della modernizzazione"), riguardo ad analoghi fenomeni nelle società sudamericane (società in transizione come era la nostra), che "i gruppi parzialmente bloccati cercano di rimuovere gli ostacoli alla mobilità sociale ed i loro sforzi possono portarli ad assumere atteggiamenti rivoluzionari". D'altronde la nota teoria del ruolo strategico del gruppo parzialmente bloccato, formulata da Lipset e Bendix, nonchè da Lenski, è fondata su un'ipotesi di questo tipo e sulla convinzione che, se fosse possibile una mobilità completa, le scelte rivoluzionarie non maturerebbero. Questo discorso sulla mobilità sociale riporta alla mente la teoria di Pareto sulla "circolazione delle élites", "che con incessante movimento di circolazione, sorgono dagli strati inferiori della società, salgono agli strati superiori, arrivano al loro pieno sviluppo ed in seguito decadono per lasciare il posto ad altre", e di conseguenza investe la più vasta problematica dei livelli di partecipazione politica. Per Pareto, il regolare funzionamento della società implica il ricambio. Quando il ricambio diviene difficile o addirittura impossibile si creano i conflitti sociali. E' tutta qui l'essenza della teoria delle rivoluzioni. All'origine delle rivoluzioni, inoltre, sta il fatto che alcuni hanno abbandonato le posizioni sociali originarie e si trovano pronti a mettere in gioco tutto pur di ottenere ciò a cui aspirano. Per dirla ancora col Germani, ogni mutamento sociale implica un certo grado di disintegrazione, la quale è dovuta ad un'asincronia nel mutamento delle varie parti della struttura. Si tratta, in sostanza, di un ritardo con cui variano alcune parti della struttura sociale rispetto ad altre. Pertanto alcuni gruppi abbandonano il livello di partecipazione loro assegnata, per passare ad altri tipi di partecipazione che non erano previsti nella struttura sociale precedente al cambiamento. Il gruppo viene così a trovarsi "dislocato" in relazione alla struttura preesistente e disponibile ad un diverso tipo di partecipazione politica. Per K. Deutsch, questo processo sociale spezza i vincoli delle antiche lealtà e gli impegni nelle sfere sociale, psicologica e politica, in modo che la gente viene a trovarsi disponibile a nuove e diverse forme di socializzazione. Quando la "circolazione" è bloccata, i gruppi "dislocati" restano spiazzati ed allora sorgono i problemi. La nascita del movimento Nella primavera del 1968, in contemporanea al maggio francese, il disagio dei giovani italiani esplose. Fu una "rivolta di generazione", come si lesse sui cartelli issati nelle Università di Roma, Napoli, Milano. E l'episodio insurrezionale di Valle Giulia a Roma, nella primavera del 1968, ne fu una dimostrazione. Schierati contro i gipponi della famigerata "Celere" si trovarono compatti gli studenti universitari di sinistra e di destra. Si trovarono uniti contro "il sistema", come veniva definito il "blocco politico-sociale" allora dominante. Ed i questurini furono messi in fuga. Nel frattempo tutte le Università divennero teatro di occupazioni prolungate e palestra di politica. Gli studenti di Destra furono presenti sin dall'inizio e fecero parte a pieno titolo del Movimento studentesco, aggiungedovi l'aggettivo "europeo" per meglio catterizzarsi. Essi si collegarono spesso con altre formazioni di dissidenti di matrice non-comunista, come i pacciardiani ed i liberali. Essi andarono man mano elaborando una serie di tesi politiche, che ancor oggi, a distanza di tent'anni mostrano una soprendente lucidità e lungimiranza. Per il Movimento studentesco europeo, la divisione dell'Europa, sancita dagli accordi di Yalta nel 1945 fra USA ed URSS (di cui la Germania e Berlino in particolare erano l'esempio più drammatico) costituiva la causa primaria di un sistema politico-sociale bloccato. |
La contestazione
doveva, quindi, non inseguire modelli di tirannie asiatiche (Mao, Ho Ci Min) peraltro
estranei alla storia culturale del nostro Continente e tipici di società rurali
preindustrali, bensì essere diretta contro gli imperialismi USA ed URSS. Erano questi
ultimi, infatti, che tenevano in ginocchio le nazioni europee. Perciò la contestazione
avrebbe dovuto puntare alla liberazione ed all'unificazione dell'Europa. Soltanto in questo modo si sarebbero sbloccati i sistemi politici ingessati come quello italiano e soprattutto sarebbe stato possibile sperimentare nuovi modelli sociali ed economici. Il '68 in Francia ed in Italia nacque, quindi, da una diffusa esigenza di "liberazione". Esso, come "movimento di liberazione" non poteva essere interpretato dalla Sinistra, che aveva come modello ideologico il marxismo-leninismo e la "dittatura del proletariato", la cui sola e possibile e-spressione storica erano i regimi burocratici dell' oriente. Infatti, il "socialismo reale", nelle sue forme di oppressione dell'uomo, di massificazione e di indottrinamento forzato non costituiva una "deviazione" da un modello ideale (peraltro mai realizzatosi storicamente), come oggi continuano ad affermare i neo ed i post comunisti nel tentativo di giustificarsi, ma corrispondeva alla natura intrinseca dell'ideologia marxista-leninista. Nessuna speranza, quindi, da quella parte politica. Piuttosto il '68, aspirando alla liberazione della parte migliore della coscienza individuale (pouvoir à l'imagination) e, quindi, alla liberazione delle forze migliori della società, poteva essere un movimento riconducibile ai temi politici della Destra libertaria, europea ed americana. Proprio in quegli anni i Libertarian americani (Daniel Bell, Irving Kristol, ecc.), riprendendo anche il pensiero degli economisti della cd. "scuola austriaca" (von Mises e von Hayek), andavano riformulando una teoria sociale e politica, che poneva l'individuo al centro della storia e che poi negli anni '80 è sfociata nella grande stagione reaganiana dell'individualismo, della libera iniziativa, della creatività del post-indutriale. Ed ancora in quegli anni gli intellettuali della Destra italiana riflettevano sulla "beat generation" e sui fenomeni di liberazione in atto nelle società occidentali (beats, hippies, ecc.). Perfino Julius Evola scriveva con entusiasmo su questi fenomeni e coniava la definizione di "anarchici di Destra" (in "L'arco e la clava"). A Napoli G. Fergola pubblicava un libro intitolato "Beats". C'era chi scriveva una raccolta di poesie hippies intitolata "Cat". Si guardava a Ginsberg, a Kerouac, come eredi di Rabelais, Pound, Miller e perfino di Céline, maledetto come Villon (ricordo il libretto "Céline, una barricata individuale"). Si pensava alle avanguardie letterarie del primo novecento (Papini, Prezzolini, Soffici) ed alle avanguardie artistiche del Futurismo e del Dadaismo (ricordo il mio "La rivoluzione dadaista"). Insomma gli intellettuali di Destra si erano posti "on the road". In tutt'Italia la Destra partoriva riviste di riflessione culturale e politica (si pensi all'Orologio). Mentre cresceva la protesta giovanile ad Ovest ed ad Est (la Cecoslovacchia aveva osato sfidare l'URSS), i giovani intellettuali della Destra italiana si ponevano la domanda che era stata espressa trent' anni prima dagli intellettuali della Destra francese, come Brasillach: "perchè tutto questo non può essere anche nostro?". Insomma, era nata la Destra libertaria, che ancor oggi è viva e può dare molto. L'ecclissi del "movimento" Per i governanti e per i ceti egemoni dell'epoca il dissenso giovanile esploso a Valle Giulia fu uno shock. Non abituati alla critica, al confronto con una vera opposizione, arroccati in un potere indiscusso, ebbero paura che un'intera generazione, messe da parte le varie coloriture politiche, potesse sconvolgere il "loro ordine" costituito. Da questa paura nacque la reazione del "sistema", che si attuò in due tempi. Innanzitutto fu messa in pratica la vecchia massima del "divide et impera". Il Partito Comunista richiamò all'ordine i giovani di Sinistra, fornì loro falsi obiettivi, falsi slogans e falsi modelli politici (Guevara, Mao, ecc.), inattuabili in un paese industralizzato dell'occidente. Il MSI richiamò i giovani di Destra, cercando di trasformarli in "guardie bianche" del sistema, in una assurda lotta contro le occupazioni degli Atenei e delle scuole, a tutto vantaggio di chi voleva il mantenimento dell'ordine. In verità sia nel PCI che nel MSI si discusse molto. Per quanto riguarda la Destra, a nulla valsero le argomentazioni dei giovani del FUAN e degli esponenti più illuminati, che dissentivano dalla logica delle spedizioni punitive e che cercavano di spiegare come e perchè gli studenti di Destra dovevano essere necessariamente una parte del Movimento studentesco ed assumere magari la funzione trainante sulla strada di un radicale cambiamento, anche rivoluzionario se fosse stato necessario. Purtroppo si ebbe l'impressione che il gruppo dirigente del MSI, pur comprendendo queste posizioni, non potessero fare altrimenti. In sostanza si ebbe la conferma che quello era il ruolo che il "sistema" aveva assegnato al MSI : uno strumento di potere altrui. Da allora i missini furono bollati come "ascari del sistema". E lo stesso valse per il PCI. Ma proprio questi episodi fecero capire che la Destra italiana ha sempre avuto ed ha tuttora confini ben più ampi di quelli di un partito politico, e racchiude nel suo vasto spazio un ambiente umano composito, intelligenze ed espressioni culturali vive e variegate, ciascuna delle quali ha dinanzi a sè uno specifico percorso politico ed esistenziale, che a volte in particolari congiunture della storia si incrocia con gli altri (in ciò ha ragione G. Malgieri con la sua rivista "Percorsi"). Nel 1968 PCI e MSI pagarono lo scotto dei loro errori, con un esodo dalle loro organizzazioni giovanili. Molti dei migliori lasciarono la F.G.C.I. (Federazione Giovanile Comunista Italiana) e la Giovane Italia-FUAN (MSI). Nacquero i "gruppuscoli" di sinistra e di destra, composti da giovani intellettuali rivoluzionari. Ma la rivoluzione era ancora soltanto un mito e un' esercitazione verbale. L'azione rivoluzionaria consisteva ancora soltanto nella diffusione di un'analisi politico - sociale, nel proselitismo, in manifestazioni di piazza, in occupazioni di Università. Il "salto di qualità" negli anni '70 Il "salto di qualità" dell'azione rioluzionaria si verificò per necessità di cose soltanto più tardi e cioè negli anni '70, quando il "sistema" con una inaudita violenza cercò di spegnere questo persistente clima di effervescenza politica. Furono gli anni delle stragi di Stato. La contestazione giovanile si trovò di fronte ad una scelta: abbandonare la lotta oppure accettare lo scontro proposto dal sistema ad un livello più alto e totale. Molti, per carattere, per convinzione o per viltà si ritirarono in un limbo politico, fatto di studio, di buone letture, di meditazione e perfino di spiritualismo. Altri intrapresero la via della lotta armata e della clandestinità. Ma l'errore più grave consistette nel combattersi armati gli uni contro gli altri. Una assurda guerra, pilotata dal sistema di potere, che proprio quei giovani volevano abbattere. Essi furono vittime del clima di violenza di Stato che non concedeva nulla agli avversari, ai dissidenti ed a chi non fosse allineato col regime consociativo. Quei giovani furono costretti ad incamminarsi sul sentiero dei soldati perduti. Spinti su una strada senza ritorno, poi videro strumentalizzate le loro azioni e perfino la loro stessa esistenza. Il sistema di potere democristiano colse l'occasione della presenza in Italia di gruppi rivoluzionari per mantenersi in vita, speculando sulla grande paura della borghesia. Un sistema che già agli inizi degli anni '70 era odiato dalla maggioranza degli italiani, ma che è stato tollerato ancora per un ventennio proprio per la paura del "salto nel buio", rappresentato da un cambiamento politico completo e radicale. D'altronde quale cambiamento ci poteva essere in un paese, assegnato alla sfera di influenza americana e nel quale ogni possibile alternanza democratica era bloccata dalla presenza di un forte Partito Comunista, portatore degli interessi strategico-militari dell' URSS? E quale margine di azione politica e di cambiamento era consentito all'interno di un paese apparenente ad un'Europa smembrata e succube? Consegnati alla storia come sconfitti Una intera generazione è uscita umiliata e sconfitta dagli avvenimenti di quegli gli anni. Una generazione che pure poteva esprimere molto e dare molto all'Italia. Era una generazione di giovani, formatisi nei licei prima della riforma demagogica e devastante del 1969, temprati allo studio, maturati nella cultura storico-filosofica allora prevalente, con dinanzi agli occhi i modelli culturali, esistenziali e politici rappresentati dai grandi rivoluzionari dell' 800 e del nostro secolo. Una generazione non ancora "americanizzata", che ignorava i paradisi artificiali della droga, poco avvezza al consumismo (che non aveva ancora raggiunto le famiglie piccolo borghesi alle quali la maggior parte di essi apparteneva). Una generazione che era soprattutto una grande forza morale, a cui doveva spettare un Destino. Ma il "sistema" fu spietato. Un sistema incarnato da una classe politica composta da uomini anziani, che avevano preso il potere nel dopoguerra e che non intendevano mollarlo ad una generazione più giovane. Una classe politica che si avviava ad essere una gerontocrazia. Nella lotta fra queste due generazioni vinse la più vecchia, che era la peggiore, sia in termini culturali che morali. Ma questa è ormai soltanto storia. Ma la storia qualche volta si prende rivincite. Inaspettate e terribili. |
Il "mio" sessantotto |
||
Il N. 1 di "Università Europea" |
In alto (da sinistra):
|
|
Quando, nella
"primavera" del Polo, gli studenti riscoprirono le barricate, sentii il bisogno
di andare a vedere, di andare a sentire l'aria per verificare se era possibile ritrovare
gli "odori" della mia giovinezza. Sentii l'atmosfera cupa dell'odio..., provai fastidio. Il il '68 non lo ricordavo così: c'era in quel maggio, almeno in gran parte di noi, una leggerezza ed un entusiasmo che, forse, i giovani di oggi non conoscono. Io, in quel '68, mi trovavo sempre lì, tra le botte e i lacrimogeni, e non sapevo che partecipavo alla costruzione della Storia. Ecco, io questa consapevolezza non l'ho provata mai; mi trovavo sempre lì, ma sempre per caso, spinto da curiosità, goliardia o, forse, dalla voglia di cambiare il mondo. E quella voglia ce la portiamo ancora dentro... Di quei giorni, chissà perchè, ho soltanto come dei flash nella memoria: rivedo quel pazzo di Paolo Avolio che, da un balcone fiorito di bandiere italiane e cecoslovacche, con i "rossi" che cercavano di sfondare la porta di Scienze Politiche, tra il fumo dei lacrimogeni, urla a me, a me piccolo piccolo dietro il cordone dei celerini, tanti e grandi che circondavano l'Università: |
"Dino, vieni,
vieni, ci stiamo divertendo". Vedo il povero Fruguglietti colpito da un pugno mentre tiene il suo discorso in un affollato ed assolato Cortile della Minerva; e, la sera, sotto una grande bandiera di Che Guevara in una sede di Potere Operaio, una raddolcita "compagna" me ne avrebbe spiegato il perchè. Eh sì, le compagne erano tanto più belle e, soprattutto, tanto più disponibili delle nostre poche "camerate". Rivedo le fiamme dell'aula De Santis ed il gruppo di amici che, armati di barba, si infiltravano tra i compagni per pestarne allegramente qualcuno. E poi la goliardata del Vico: i nostri "nemici", tutti figli di papà, avevano occupato il liceo, lasciando in cortile vespe e motorini; quale occasione più bella per dare sfogo al nostro "niente pe' mme, niente pe' nisciuno", li legammo tutti (i motorini, intendo) con una catena e li appicciammo. Bei tempi? Eh no, questo non lo dico, questo lo dicono i vecchi. Erano tempi... certo era bella la nostra voglia di gridare e di lottare... senza odio. L'odio no, quello lo portarono dopo. |
Sogno o son destro? |
||
Gennaio 1969, l'Università di Napoli |
||
Utopia è qualcosa
che non esiste. La contraddizione nei termini è data dal fatto che la realizzazione dell'utopia ne rappresenta contemporaneamente la sua negazione intrinseca. Il ' 68 può essere stato questo, un sogno, l' "immaginazione al potere", naufragato nelle paludi del vivere quotidiano. A proposito di utopia, quante volte si è discusso e scritto sull'occupazione dell'Università di Roma, momento topico della contestazione giovanile italiana, quando giovani di destra e di sinistra occuparono le facoltà universitarie, elaborando progetti e programmi alternativi alla obsoleta metodologia di studio. Il sogno di Drieu La Rochelle sembrava materializzarsi nel superamento dell'apparente antinomia fra due mondi in cui "niccianesimo e marxismo si distruggono, si elidono a vicenda nella fisionomia essenziale, ma rinascono subito dopo con le parti più importanti di ambedue le dottrine nella nuova forma sociale cui conduce il mescolarsi delle loro ingerenze". Molto più prosaicamente Antonello Venditti avrebbe cantato il '68 come il tempo in cui "... al bar Nietzsche e Marx si davano la mano..." Agli inizi di questo anno fatale, giovani "rossi" e "neri" occuparono l'istituto di Matematica di via Mezzocannone a Napoli. Fra coca-cola, birra, zeppole e panzarotti divisi fraternamente, si discuteva su Evola, Ho chi Min e le "Riflessioni sulla violenza" di George Sorel, come ricorda Orazio Ferrara nel suo agile pamphlet "Il mito negato" (Ed. I Dioscuri). Su come siano andate le cose in seguito, fin troppo si è scritto e parlato; quali furono le strumentalizzazioni operate dai partiti che crearono una barriera sanguinosa fra i giovani di opposte tendenze. Ma si sarebbe potuto cambiare il corso degli eventi se non fosse prevalsa la logica degli schieramenti? In un'Europa divisa in due blocchi contrapposti, con l'immensa tragedia della seconda guerra mondiale conclusasi poco più di vent'anni prima, con una classe politica i cui esponenti, quarantenni o cinquantenni, avevano vissuto sulle proprie carni le conseguenze drammatiche di una |
scelta di campo
ancora più feroce perchè operata all'interno di una guerra fratricida costellata di
massacri, impiccagioni, fosse comuni fino all'epilogo granguignolesco di piazzale Loreto,
quale volontà superiore avrebbe potuto produrre una nuova sintesi rivoluzionaria? In un mondo umano, troppo umano, si affacciavano gli "Halbstarken", la generazione nata dalle macerie, quelle macerie che avevano come epigoni le figure di Franz von Gerlach e del padre, nel dramma di Sartre: "I sequestrati di Altona", esempi tragici della fine di un'epoca, e questa generazione voleva spazzare via, in uno slancio di giovanile ardore nichilista, le vestigia ed i formalismi residui di un tempo passato troppo velocemente. Quale volontà superiore avrebbe potuto materializzare e trasformare in un grande movimento tutte queste esigenze? Di questo ardore giovanile, il sistema politico ed economico ne ha digerito, metabolizzato i contenuti creando - ironia della sorte - nuove sovrastrutture: vestire giovane, mangiare giovane, pensare giovane, il tutto impiastricciato da body building, lifting, massaggi e centri di estetica, fino alle patetiche file di satiri sessantenni bramosi di toccare con mano il nuovo miracolo "viagra". Qualche mese dopo gli scontri di Valle Giulia, il 21 gennaio 1969, giovani del movimento studentesco si scontrarono con i militanti del movimento di destra Università Europea, sulle scale dell'Università di Napoli. Nei giorni seguenti, gli scontri si ripeterono in diverse parti della città, con un tentativo di assalto alla Federazione provinciale del P.C. I. di via dei Fiorentini. Finita l'epoca del sogno, il brusco risveglio portava ad assaporare il gusto amaro della realtà. Questo sogno continua a rimanere nei ripostigli polverosi della nostra mente, come scriveva circa un secolo fa T. E. Lawrence, il mitico Lawrence d'Arabia: "Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi perchè può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti per attuarlo". |
Il ragazzo con la pistola |
||
Mi telefona il mio
amico Sergio, il tono è concitato: "I compagni stanno assaltando i nostri che occupano l'università, ci sono pure i metalmeccanici, sarà un massacro...". Penso subito ai miei colleghi ed amici di "Università Europea" che ho lasciato poche ore prima, dopo aver finito il mio turno di "occupazione" a Giurisprudenza, mia sorella è tra loro... Senza un attimo di esitazione prendo la pistola - una Beretta calibro 9 - che poche settimane prima un camerata, oggi sindacalista di spicco nella Triplice, mi aveva prestato per il solo fatto che glielo avevo chiesto (io 18 anni, lui qualcuno di più) e mi precipito fuori, verso l'università sotto assedio. Misi le ali ai piedi quella sera, correndo come mai avevo fatto, in tasca quella strana, pesante e insolita presenza... Arrivo all'angolo di via Mezzocannone trafelato ma deciso, lì trovo un gruppetto di amici intenti ad osservare il campo |
di battaglia: fuori
la Centrale centinaia di operai, adulti ed armati di spranghe e catene spingono dentro un
enorme carro scala che useranno poco dopo, a mo' di ariete (nella foto in alto a destra, a sinistra l'università in fiamme), per sfondare i cancelli di Scienze Politiche in cui sono asserragliati i nostri. Clamore e fragore. Ad un tratto, dall'ingresso laterale vedo una marea umana inondare il cortile della Minerva ed i viali laterali per impedire che qualcuno dei nostri potesse sfuggire da qualche finestra. Non ci vidi più, estratta la pistola mi lanciai, solo e urlante, contro quel muro umano, qualche coraggioso mi seguì. Al primo colpo in aria la moltitudine tentennò, al secondo se la diede a gambe, mi sentii un eroe. I compagni chiesero subito l'intervento della polizia, mi dileguai ma i nostri poterono uscire, sia pure sotto scorta. Negli anni mi son chiesto più volte: ma quella pistola di chi era davvero? |
Memoria di Adriano |
||
Nel 1969 Adriano
Romualdi aveva ormai acquisito la statura culturale di erede spirituale di Julius Evola,
con varie e autorevoli pubblicazioni, di notevole spessore culturale, rigorosamente
documentate e di taglio fortemente anticonformista. Ricordo, in particolare, il suo volumetto "Julius Evola: l'uomo e l'opera" (1968, Collezione Europa, Editore Volpe), che fu senz'altro il primo approccio serio, approfondito ed anche critico all'opera e al pensiero di Evola nel mondo della destra italiana e che ottenne l'approvazione del filosofo romano. Non senza significato che Adriano pubblicasse quel saggio proprio nel '68, in un momento storico delicatissimo per la destra italiana, culturalmente povera rispetto ai processi di cambiamento che stavano per innescarsi nella società. Adriano voleva offrire alla destra - e soprattutto ai giovani - una nuova e diversa chiave di lettura della storia, dei suoi fenomeni, delle sue tendenze più profonde, che si scorgono al di là di una visione epidermica degli avvenimenti. Quel volumetto, nel '69, fu una delle mie prime letture - all'età di 14 anni - ed ebbe su di me un effetto molto stimolante, spingendomi ad approfondire i temi che in quel saggio erano trattati nelle grandi linee ed offrendomi miti e simboli in cui credere e per i quali combattere. Nel 1970 Adriano tenne una conferenza a Napoli, all'Antisala dei Baroni nel Maschio Angioino, sul tema del nazionalismo europeo, per iniziativa del circolo culturale "Drieu La Rochelle". Ricordo bene il colloquio che ebbi con lui, poco prima della sua conferenza, i consigli che mi diede sulle letture più opportune: "Gli uomini e le rovine" di Julius Evola e il libro di J.Thiriart "Europa: un impero di 400 milioni di uomini". "Sono i libri che danno le basi, con quelle letture si gettano le fondamenta" mi disse con aria molto convinta. Colpiva, in me che ero appena un quindicenne, quella sua aria germanica, dovuta anche alle sue caratteristiche fisiche, quel suo sguardo da studioso attento ed animato da una salda concezione spirituale e politica. Nella conferenza Adriano sviluppò le tesi che avevano già caratterizzato la sua pubblicistica negli ultimi anni sessanta. Egli aveva criticato fortemente la destra italiana, per essere rimasta legata, negli anni '60, a tematiche di un vecchio nazionalismo, quali la difesa dell'italianità dell'Alto Adige, senza rendersi conto dei processi di cambiamento in atto, delle tendenze storiche determinate dall'egemonia delle due superpotenze - USA e URSS - e senza quindi essere capace di offrire ai giovani un mito, un'idea-forza che fosse all'altezza dei tempi, in un momento storico di grande fermento giovanile e di forti turbolenze politiche. Nel suo saggio "La destra e la crisi del nazionalismo" (Ed. Settimo Sigillo, Roma, 1973) in cui riprendeva e sistematizzava argomenti già sviluppati negli anni precedenti, Adriano scrive: "Diciamolo francamente: accenti, slogans, simboli e motivi di questa destra sono ormai qualcosa di superato, spesso di patetico e talvolta di ridicolo. All'origine di tutto ciò sta il rapido deterioramento della tematica del nazionalismo dopo il 1945, dovuto al venir meno della ragion storica delle piccole patrie europee di fronte alla Russia e all'America... Il problema della destra moderna quello di sopravvivere alla fine del vecchio nazionalismo. E' quello di adeguarsi alle mutate dimensioni del mondo in una prospettiva non più nazionale, ma continentale... Solo un nazionalismo europeo - e una interpretazione del fenomeno fascista nel suo significato europeo - possono essere di contrappeso alle mitologie dell'Occidente la coscienza del carattere "epocale" e internazionale di una crisi giovanile che per reagire al clima soffocante dell'americanismo consumista non trovava altri riferimenti se non il mito marxista della lotta di classe." "Guardateli bene questi drogati, questi alienati dalla loro condizione storica: hanno a due passi il muro di Berlino, ma protestano contro il "fascismo"; gli operai polacchi insorgono per il pane, ma essi manifestano contro il "capitalismo"; la Russia schiaccia metà dell'Europa, ma essi pensano al Viet-Nam, al Brasile. L'oppio marxista è arrivato al cervello e li ha segregati nella cecità e nella stoltezza. |
Questo mito astratto
e alienante della lotta di classe va colpito e frantumato nelle scuole, nelle piazze,
nelle università. E' il grande equivoco che offusca l'unica concreta prospettiva storica del nostro tempo: l'Europa - Nazione. L'Europa - Nazione sia la bandiera e la parola d'ordine della nostra propaganda". Per Adriano il nazionalismo europeo era inteso come movimento culturale e politico finalizzato strategicamente a creare una alternativa di civiltà al materialismo americano e al collettivismo marxista. La sua impostazione si connotava - rispetto al pensiero evoliano incentrato sulle radici spirituali dell'identità culturale europea, sulla "scelta delle tradizioni" approfondita ne "Gli uomini e le rovine" - di una più spiccata valenza politica e di una attenzione, molto realistica, ai risvolti economici del problema europeo. L'Europa come blocco politico, unione delle risorse politiche ed economiche dei vari Stati, per sfidare le due superpotenze, USA e URSS. E fra quegli Stati europei Adriano includeva chiaramente anche i popoli dell'Europa orientale, oppressi dall'Armata Rossa. Questo mito dell'Europa - in termini spirituali, culturali, ma anche politico-economici - era la bandiera da agitare e intorno a cui calamitare le energie e gli entusiasmi delle nuove generazioni. Oggi, a distanza di 30 anni, nel compiere un'analisi retrospettiva sul '68, non si può non riconoscere la fondatezza, la modernità e la lucidità di quelle tesi di Adriano che rimasero purtroppo inascoltate nella destra ufficiale, la quale, con comportamenti talvolta isterici, si condannò da sola ad essere taglita fuori dal movimento di contestazione giovanile che era nato con ben diverse origini - come dimostrano i fatti di Valle Giulia a Roma nel '67 - e che venne lasciato in balìa della gestione politica della sinistra, per approdare poi nelle secche del terrorismo degli anni di piombo, funzionale, in definitiva, alla legittimazione e normalizzazione del potere politico esistente, che si presentava col volto rassicurante di "tutore dell'ordine". E quelle tesi di Adriano vanno rilette oggi, per una riflessione di respiro strategico e di spessore culturale, sul ruolo della Destra nel momento storico della realizzazione della unione europea e della moneta unica. Adriano aveva avvertito la necessità storica di una volontà politica per dar luogo all'Europa-Nazione, come nuovo soggetto politico autonomo e sovrano, rispetto alle superpotenze. "Certo - scrive Adriano parlando dei precedenti passi politici nella direzione dell'unità europea - si giunse presto ad una forma di comunità economica. Si realizzarono la CECA e il Mercato Comune, si installò a Strasburgo quella compagnia di villeggianti che è il parlamento europeo. Ma per una più profonda unità mancava alcunchè di fondamentale: la volontà politica". Anche se oggi sono stati compiuti passaggi politici ed economici che configurano uno scenario diverso rispetto a quello in cui scriveva Romualdi, il dato politico sostanziale non è mutato. La volontà politica mancava allora e manca oggi, come dimostrano eloquentemente le discordie fra gli europei in presenza di crisi come quella del Golfo Persico e soprattutto di fronte alla crisi bosniaca, al dramma dei profughi, alla tragedia della distruzione di Sarajevo di cui ora, per un significativo silenzio-stampa - quasi un ordine venuto dall'alto - nessuno parla. La stessa discordia si manifesta puntualmente in tema di linea politica rispetto agli extra-comunitari, alle misure da adottare per regolare i flussi migratori, alla politica da impostare rispetto al mondo arabo e, più in generale, rispetto al Terzo Mondo. Non sono le banche nè i parametri di Maastricht a dare un'anima all'Europa. Occorre recuperare ed attualizzare le radici spirituali e culturali dell'Europa e rilanciarle in una nuova identità comune europea, forza di coesione di un nuovo blocco politico europeo, capace di dialogare col mondo arabo e di stabilire un diverso rapporto, più equilibrato e corretto con gli Stati Uniti. Oggi più di allora, il compito storico della Destra politica italiana è quello di attualizzare e rilanciare il "mito" dell'Europa, per una diversa cultura che ci liberi dalla condizione storica di colonia americana. |
Ripensando il '68 |
||
Sono passati
trent'anni dal 1968, ci sono state poche manifestazioni, solo qualche timido tentativo di
celebrazione. Alla fine, tra le emergenze politiche e sociali di questo '98, ed i campionati mondiali di calcio, il '68 è passato in secondo piano. Poco male, lo spirito del '68 non consente celebrazioni, non può diventare retorica. Il '68, anche senza celebrazioni, rimarrà nella storia di questo secolo, come l'anno in cui tutto cominciò. L'anno in cui tutte le contraddizioni accumulate da sistemi politici, sociali e culturali dominanti, scoppiarono. Il '68 fu l'unica e vera rivolta giovanile di questo secolo. L'importanza degli avvenimenti che si produssero in quegli anni è appunto, in questa definizione: i giovani divennero protagonisti nella rivolta, nel chiedere un cambiamento della società. In questo articolo tenterò di riportare una testimonianza personale di quel periodo. Nello spirito di quegli anni in cui i sentimenti, le emozioni, le idee, le azioni erano un insieme non razionale, ma bensì vissuto di corsa. La riflessione è arrivata molto tempo dopo. Quando, alla luce di avvenimenti tragici, una intera generazione è stata o criminalizzata ed emarginata oppure, cosa peggiore, omologata, fagocitata dal potere. Abbiamo registrato allora che i valori del '68 furono sostituiti con l'arrivismo, l'arroganza, l'ignoranza e l'egoismo e la fame di potere. Ma questa riflessione ci riporterebbe, troppo velocemente ai nostri giorni. Ritorniamo al '68, a quell'anno che racchiude un intero decennio. A Napoli il '68 è cominciato in ritardo. Gli avvenimenti che si agitavano nel mondo in quell'anno, ci videro spettatori sbalorditi e confusi. Solo più tardi, pensammo che potevamo farlo anche noi! Imparammo a conoscere i leader del maggio francese: Daniel Cohn Bendit e quello tedesco Rudi Ducke, dai giornali a dai notizari televisivi. Le scene delle battaglie tra studenti e polizia attorno alla Sorbona mi lasciavano senza fiato. ero travolto da quelle immagini, che mi trasmettevano un unico definitivo segnale: E'possibile ribellarsi!". Quello che avevamo avvertito nel corso degli anni sessanta, come la rivolta degli studenti di Barkley, le Black Panters, le canzoni di Bob Dylan e del Rolling Stones, l'uccisione di Bob Kennedy e di Martin Luther King, il ricordo di John Kennedy, tutto si mescolava in un sentimento ancora indefinito di cambiamento ma di cambiamento violento. La confusione aumentò nell'estate del ' 68, quando di fronte ai carri armati russi che spegnevano la impossibile "Primavera di Praga", Jan Palach, con la stessa tecnica dei bonzi vietnamiti si lascia bruciare per la libertà. Il '68 fu un anno di violenza, di guerra, di contraddizioni, che scosse il mondo. Una sola parola lo identifica: "liberazione". Mi convinceva quella espressione, molto più dell'abusata "libertà"; liberazione significava liberare le energie vitali, liberare dalle catene, dai pregiudizi, dal vecchiume culturale, dalle regole inventate da laltri e non capite, essere protagonisti. L'immaginazione al potere. Si poteva sognare. Essere giovani e protagonisti della propria liberazione, in grado di inventarsi il proprio futuro, la propria identità, la propria cultura. Ricordo, che non ho mai letto tanto come in quel periodo, una lettura famelica; i libri erano divorati. Si leggeva, dando fianlmete risposta ad una fame storica di conoscenza, più si leggeva e più si aveva fame. Una sensazione che vivo ancora oggi, una fame di lettura che non riuscirò mai ad appagare. Chi ha vissuto l'accanimento della lettura, non conosce lo sforzo che occorre per arrivare a terminare un libro. Eppure leggevamo testi astrusi, complessi, di filosofia, di economia, di politica. Alle letture facevano seguito le discussioni, le interminabili discussioni che non raggiungevano altri risultati che il dividerci, distinguersi per affermare la propria identità. Dividersi per affermare la propria identità, questa era l'attività principale di quei mesi, dove si individuavano i nuovi capi, i riferimenti da imitare e seguire. Dividersi per ritornare tutti insieme nella lotta, nelle occupazioni e nelle manifestazioni. Ma tutto ciò a Napoli arrivò dopo. Il '68 italiano ha tre luoghi diversi di azione e tre riferimenti che in essi si identificano. A Pisa si afferma Adriano Sofri e da vita al movimento di Lotta Continua, a Milano Mario Capanna è l'indiscusso riferimento del Movimento Studentesco della Statale, a Roma si afferma Oreste Scalzone che sarà tra i fondatori di Potere Operaio. A Napoli il movimento di rivolta giovanile non si identifica in un leader carismatico che si distacca al di sopra di tutti, ma bensì si articola ad Ingegneria, alla Centrale, a Medicina negli anni successivi, all'Orientale. Poichè il nostro '68 arriva più tardi è già fortemente politicizzato, diviso tra i nuovi movimenti e le organizzazioni marxiste - leniniste. Il crollo del mito sovietico era stato sostituito dalla Cina di Mao e dalla Rivoluzione culturale, le dispute divennero |
soprattutto
ideologiche, sempre più astratte. La parola unificante della prima fase del Movimento:
"liberazione", fu sostituita da: "organizzazione". Organizzare la lotta, la resistenza, lo scontro con i nemici, organizzare il nuovo partito, organizzare la militanza. In questo passaggio si sintetizza l'inizio e la fine del '68. Al bisogno di liberazione giovanile, che esprimeva una necessità di cambiamento della società e delle sue regole, si sostituiva un tentativo di organizzazione della rappresentanza politica, non più basata sulla delega, ma sulla diretta partecipazione dei singoli. L'assemblea era il luogo delle dicisioni, a cui tutti potevano partecipare. La società italiana degli anni '60 era ancora formalista, ipocrita, provinciale e rigidamente divisa per categorie sociali. Non riuscivamo ad accettare il servilismo nei confronti dei potenti, non accettavamo le regole dell'ordine costituito, non potevamo accettare la censura. I giovani fascisti erano i nostri nemici per definizione, per noi rappresentavano il braccio violento di un potere che li chamava a difesa di un ordine vecchio. La partia, la fa miglia, la rispettabilità, l'ordine naturale delle cose era quello dal quale volevamo liberarci. Gli anni che seguirono il '68, furono "formidabili", come ancora oggi afferma Capanna. Un movimento di massa si organizzò su tutto il territorio nazionale. Agli studenti si aggiunsero gli operai nel '69, diventando i protagonisti della lotta, nuovi soggetti organizzati si sostituirono alle strutture superate e si radicò un cambiamento, se non nella struttura politica, sicuramente in quella sociale ed economica. Quei comportamenti che oggi appaiono banali e normali, furono frutto di conquiste dolorose. Ripensando al '68, salvando, come sto facendo in queste righe, i valori, il nobile e romantico tentativo di cambiamento che i giovani di allora cercarono con speranza, non mi allontana l'amarezza di quanto ho registrato negli anni successivi. Quello scoppio, quella rivolta, quella speranza, fu accompagnata da una violenza che il nostro Paese non registrava dalla fine della seconda guerra mondiale. Abbiamo dovuto registrare fino al 1985, centinaia di morti, attentati, scontri di piazza, terrorismo, coinvolgimento di innocenti, trame oscure ancora non chiarite. Alla domanda di "liberazione" degli studenti e degli operai si rispose con la repressione, gli arresti, gli attentati. Il 12 dicembre 1969 l'Italia fu precipitata in quella spirale di trame oscure, di attentati e di tentativi di colpi di Stato, chiaramente ispirati dai servizi segreti militari americani, come oggi afferma il giudice della Strage di Milano. Le esperienze internazionali erano davvero tremende, dal colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, al feroce Pinochet cileno, alla guerra del Vietnam, il volto del sistema capitalistico occidentale appariva ai nostri occhi, come un sistema che sacrificava al Dio denaro la libertà, il benessere dei popoli, l'autodeterminazione. A fronte del crollo dei sistemi comunisti, dinanzi al genocidio di Pol Pot, ed ai tanti conflitti locali che hanno insanguinato e continuano ad insanguinare il mondo, oggi sappiamo che quella era e fu la risposta sbagliata alla domanda di cambiamento che i giovani ponevano nel '68. Troppo lungo sarebbe in questa sede esaminare i trent'anni di storia che abbiamo vissuto. Ma il valore del '68, sta oggi nella capacità di poter tracciare un percorso storico definitivo in cui, finalmente, non ci siano letture di parte, ma analisi scientifiche. Errori gravi sono stati commessi, crimini indicibili, in una battaglia ideologica che il buon senso della gente, dei cittadini del mondo ha superato. La sconfitta dei totalitarismi, dei regimi fascisti e comunisti, sono stati un successo dell'umanità. Mi accompagna, al ricordo di quel tempo una sensazione di disagio, una intuizione che ho paura di rendere certezza: "Ero veramente protagonista del cambiamento?" La sensazione di aver combattuto una guerra per conto di altri mi è sorta più volte, e più volte l'ho rigettata indietro, nelle stanze dimenticate anche dalla memoria. E' difficile ammettere i propri errori, quando li si è commessi a 20anni, con la inconsapevolezza e la gioia di quella età. Una età in cui non si conosce la vita e non si ha, di essa, la cura necessaria. Come tanti altri giovani che hanno vissuto quegli anni complessi e difficili, li ho vissuti con passione, con orgoglio di appartenenza ad una sinistra politica in cui ancora milito. Questi trent'anni che sono passati da quegli avvenimenti, hanno rappresentato per me un lungo percorso nella consapevolezza, nella vita, nella realtà quotidiana. Ho nostalgia di quel giovane che fui, ma oggi ho più certezza di partecipare ad un cambiamento vero. Il riconoscere i limiti di quella esperienza non significa rinnegarla, era necessaria una rottura ed avvenne. più liberatorio per tutti noi è stato il crollo del muro di Berlino, il muro delle ideologie, il male culturale e politico di questo secolo che finisce. |
Intervista a Mario Merlino |
||
D) Ezra Pound, in
un suo celebre aforisma, afferma che se un uomo non ha il coraggio di rischiare per le
proprie idee, o queste non valgono nulla o non vale niente lui. Uno slogan del '68, quasi
dello stesso tenore, recitava: "Si ha il diritto di ribellarsi solo se si mette in
gioco la vita". A trent'anni di distanza ritiene di poter condividere il concetto? R) Poco prima che Pound morisse, alla vigilia della contestazione
giovanile, Pier Paolo Pasolini volle rendergli omaggio. D) I sessantottini, sono stati l'ultima generazione animata
da forti tensioni ideali, nonostante ciò ha supinamente accettato la
"leggerezza" degli anni successivi, come lo yuppismo degli anni ' 80. Come lo
spiega? R) Credo che bisogna fare una distinzione. Per molti il '68, lo
dicevo anche prima, fu un momento gioioso, di festa, un momento diverso di rapportarsi con
il proprio coetaneo, con l'università, con la scuola, con il banco, con il registro, con
la cattedra, con l'abbigliamento, con i propri genitori. D) Ci sono state strumentalizzazioni politiche, all'epoca, sui ragazzi di destra e di sinistra che lottavano per degli ideali? R) Direi che questo è un problema, quasi doveroso, che il mondo
adulto si ponga. D) Cosa hanno di diverso i giovani massacrati durante la Repubblica Sociale, i giovani del '68 e quelli di oggi? R) Direi un depotenziamento, intanto di coscienza ideale e di
coscienza nazionale; faccio un esempio pratico: il 30 aprile 1944, nelle cave di S. Angelo
in Formis, vengono fucilati un certo numero di giovani sabotatori, molti di loro della X
Mas. |
una scelta, non solo
nel morire, ma anche la coscienza del perchè va a morire. Nel '68, probabilmente ci fu ancora l'entusiasmo e l'illusione e l'adesione ad un ideale che potesse cambiare il mondo. Oggi, i nostri figli, ritengono, forse in maniera più coerente, che la terra gira intorno al sole indipendentemente dalle nostre scelte, e quindi questo rapporto con il cambiare il mondo, quell'intelligenza che sta nelle nostre mani, come diceva Anassagora, forse per loro non è più qualcosa di forte e di significativo. Ma dietro tutto questo, in Franco Altieri, in noi del ' 68 e nei nostri figli, credo che ci sia la stessa disperazione di pensare che la vita dovrebbe essere comunque una cosa molto diversa da quella che ci viene data. D) Un giudizio sulla situazione politica italiana e sull'Europa. R) Se mi permetti non risponderò a questa domanda. Personalmente
credo che oggi bisogna fare un grande sforzo, quello di assumere quella distanza di cui
parla anche Nietzsche, cioè di andare al di là del mondo delle maschere, del
contingente, D) Qual'è il ricordo più bello e quello R) Valle Giulia Iø marzo 1968. D) Lei è stato il fondatore del circolo anarchico XXII Marzo e di questo accusato. Si sente di definirsi un anarchico? R) Da oltre un anno porto in giro per l'Italia un incontro di parole e musiche, omaggio a Robert Brasillach. Paul Serant, in Romanticismo fascista, ricorda proprio come Brasillach amasse citare, negli ultimi anni della sua giovane vita, la frase che gli era stata detta da un giovane della milizia: "Siamo degli Anarco-Fascisti". D) Lei è stato accusato della strage di Piazza Fontana. Ci può parlare, se vuole, di questo dramma che ha vissuto in prima persona? R) Non lo so se è tanto un dramma, tralascerò l'accusa specifica, i 17 anni di processo, gli oltre tre anni di carcere, l'infamia di accuse anche morali che mi sono state rivolte e che costantemente ritornano in gioco ogni qualvolta si vuole spendere il mio nome. Io non credo che noi abbiamo due vite, ne abbiamo una sola, io ho vissuto questa. E' stato un dramma, forse, ma quando sono uscito dal carcere, mi pavoneggiavo allora a comporre poesie, una terminanava dicendo: " in questi tre anni ho conquistato la libertà dal superfluo". Beh! credo che attraverso Piazza Fontana, attraverso i 17 anni di processi e i tre anni e rotti di carcere, la follia di mia madre, la difficoltà dell'inserimento nel mondo del lavoro, il rinnovarsi costantemente di infamie gratuite, abbia conquistato una libertà più grande, che probabilmente nell'alveo del quotidiano non avrei conosciuto. D) Oggi per che cosa scenderebbe in piazza? R) Credo che non abbia bisogno di scendere in piazza, credo di
essere già in piazza. Circa 10 anni fa, sono stato nominato in un liceo della periferia
romana, dove sono nate le Brigate Rosse e l'autonomia. Quando sono arrivato in questo
liceo, mi è stata organizzata contro una dimostrazione. D) Può farci un suo autoritratto? R) Si, Gli stessi capelli lunghi, la stessa barba, solo che ormai
sono diventate entrambe bianche. |
Giugno 2000